domenica 11 agosto 2013

Perchè il socialismo? Perché Nazionale? (Alberto B. Mariantoni)

Se indipendentemente da ogni attrazione o seduzione ideologica, predisposizione o inclinazione politica, mi si chiedesse - a freddo - cosa mi suscita o fa istintivamente provare o risentire la parola «Socialismo», sarei portato semplicemente a rispondere che quest’ultima, per associazione d’idee, mi lascia immediatamente e contemporaneamente richiamare alla mente ed inevitabilmente rinverdire nello spirito, sia il concetto ideale di «Polis» greca e di «Civitas» latina che le grandi linee o la sintesi accertata della loro configurazione pratica. Vale a dire: il modo di essere, di esistere e di agire, naturale ed umano, che era insito a quelle due società ed, allo stesso tempo, il loro tangibile ordinamento politico, economico, sociale, culturale e militare, così come la storia ce lo ha tramandato. Nei due casi: il modello e la struttura di società particolari che - prendendo ispirazione dall’ordine cosmico - tendevano ad identificarsi con le proporzioni geometriche che caratterizzavano quell’assetto, nonché ad esprimersi e ad agire in perfetta armonia con i principi ed i valori che, direttamente o indirettamente, emanavano da quell’equilibrio naturale.

Quelle società - come l’idea di «socialismo» a cui sto facendo riferimento - possedevano la particolare caratteristica di essere state immaginate, concepite e realizzate dall’uomo, per l’uomo, e vivacizzate da esseri umani, in linea di massima, «equilibrati» e «ragionevoli»: degli esseri, cioè che - per il loro bene individuale e collettivo, e nel rispetto delle loro diverse utilità o convenienze e delle loro differenti e variegate sensibilità - cercavano invariabilmente e consapevolmente di coesistere e di cooperare tra di loro, tentando assennatamente e coscientemente di anteporre o di privilegiare (autant que faire se peut) il loro interesse generale, sia all’interno delle loro società che in neutralità, rapporto, relazione, confronto o scontro con altre società!



Dalla radice latina «soci-», infatti - che permette la formazione del sostantivo socius,ii (compagno, camerata, associato, alleato) e da cui emanano, a loro volta, i vocaboli socialis, e (sociale: cioè, fatto o realizzato per quella specifica associazione) e sociabilis, e (socievole: cioè, che può essere unito o equilibrato ed armonioso), nonché il termine societas, atis (società: cioè, associazione di individui unici, originali, irripetibili e complementari, aventi scopi o finalità comuni da raggiungere) la parola «SOCIALISMO», oltre a riferirsi ad un fenomeno che mette chiaramente in risalto o in gioco «un’equilibrata ed armoniosa associazione di esseri umani», tende letteralmente e simultaneamente a rappresentare, esprimere e veicolare, un «nomen» (o denominazione), un «concetto», una «dinamica» ed una «finalità».

1) Il «nomen» naturalmente, è quello che è insito a tutte le parole con finale «-ismo»: un suffisso derivato dal greco «-ismos» e dal latino «-ismus» che - come precisa il Dizionario Garzanti della lingua italiana (XIX edizione, 1980, pag. 909) - «è usato per la formazione di voci astratte, per lo più di conio moderno (solo alcune mutuate dal greco), con un vasto ambito semantico: dottrine, movimenti, tendenze, condizioni, ecc.».

Contrariamente all’opinione più diffusa, però, la parola «socialismo» non è stata affatto coniata, inventata o escogitata (oppure, lanciata per la prima volta sul “mercato”) da Robert Owen (che, a sua volta, sembrò averla addirittura scopiazzata, tra il 1820 ed 1822, dalla terminologia di un suo abituale corrispondente, un certo Edward Cowper). Tanto meno, da Pierre Leroux che avrebbe incominciato ad impiegarla nel 1832. Meno ancora, da Charles Fourier che l’utilizzerà a partire dal 1833. Ed ancora meno, da Louis Reybaud che inizierà a diffonderla, soltanto dopo il 1836.

Come precisa «L’Histoire Mondiale des Socialismes» (AA.VV, sotto la direzione di Jean Elleinstein, Ed. A. Colin, Parigi, 1984, pag. 13 e 14), la “paternità” di quello specifico neologismo, spetterebbe invece - cronologicamente ed ex-equo - a tre religiosi italiani. In particolare: al monaco Ferdinando Facchinei (che per primo, nel 1766, in uno dei suoi scritti, avrebbe fatto uso della parola «socialismo»), allo studioso Appiano Buonafede (che l’avrebbe ugualmente impiegata, indipendentemente dal primo, nel 1786) ed al chierico Giacomo Giuliani (che se ne sarebbe altresì autonomamente servito, nel 1803).

In altre parole, il classico “scherzo da preti”… Soprattutto nei confronti di chi, invece, ancora oggi, al di la delle più irrefutabili evidenze o delle più patenti e plateali constatazioni, continua - imperterrito - ad essere ingenuamente convinto che la parola «socialismo» abbia, per così dire, una spiccata «connotazione laica» ed, allo stesso tempo, provenga o sia direttamente sgorgata dall’analisi sociologica di un Karl Marx e di un Friedrich Engels, oppure dalle riflessioni ideologiche e/o dalla prassi politica, economica, sociale e culturale di un Saint-Simon, di un Sorel, di un Lenin (Vladimir Iliich Ulianov), di un Trotski (Liev Davídovich Bronstein), di un Bakunin o di un Mussolini!

2) Il «concetto» invece - diversamente dalla nascita del neologismo e dall’uso corrente del termine - non è affatto moderno. Anzi, possiamo senz’altro affermare che è presumibilmente antico, tanto quanto la storia dell’uomo.

Per riassumere, quindi, diciamo che con molteplici e multiformi aspetti, profili e lineamenti, nonché con spiegazioni, decifrazioni o interpretazioni diverse, il concetto di «socialismo» - quale oggi, noi, purtroppo, per la maggior parte, non riusciamo più ad intenderlo o a comprenderlo nella sua effettiva misura e reale dimensione (in quanto, siamo tutt’ora intellettualmente influenzati e culturalmente forviati, sia dal riflesso condizionato che emana dall’impropria, restrittiva e pervertente nozione di «socialismo» imposta al mondo - per più di un secolo - dalla martellante e capillare propaganda marxista e marxista-leninista che dall’intenso ed ossessionante condizionamento ideologico, politico e pratico, in senso individualista, che continua quotidianamente ad essere imposto, alle nostre società, dall’ingannevole, castrante ed avvilente illusione liberista/capitalista/mondialista!) - lo ritroviamo costantemente presente, nell’immaginario individuale e collettivo delle nostre società e nella loro prassi quotidiana, lungo tutto l’arco della nostra storia. In particolare: dall’epoca della Costituzione (la «Grande Rhètra») di Sparta del leggendario Licurgo (-IX sec.), a quella della «Legge Licinia» (-IV sec.) nell’antica Urbs repubblicana; dalle innovazioni sociali introdotte a Siracusa da Agatocle (-IV sec), a quelle di Manlio Curio Dentato o di Tiberio Gracco nella Roma del –III e del –II secolo; dalle tesi di Paolo di Tarso (I sec.), a quelle del filosofo pitagorico Apollonio Tianeo (I sec.); dagli aneliti espressi nei suoi scritti da Thomas More (1478-1535), a quelli di Tommaso Campanella (1568-1639); da quelli di Bernardino Telesio (1509-1588), a quelli di Gaetano Filangieri (1752-1788); da quelli di Giuseppe Romagnosi (1761-1835), a quelli di Carlo Pisacane (1818-1857), ecc. Senza dimenticare, naturalmente, le intuizioni sociali di un Georg Wilhelm Friedrch Hegel (1770-11831), né le speranze, aspirazioni o attuazioni dei vari Claude-Henri de Saint-Simon (1760-1825), Robert Owen (1771-1858), Charles Fourier (1772-1837), Etienne Cabet (1788-1865), Philippe Buchez (1796-1865), Auguste Comte (1798-1857), Thomas Carlyle (1795-1881), Louis Auguste Banqui (1805-1881), Johann Karl Rodbertus (1805-1875), Louis Blanc (1811-1882), Adolph Wagner (1835-1917), Pierre Joseph Proudhon (1809-1865), ecc.

Ebbene, quel «concetto» può essere facilmente compendiato o sintetizzato in questi termini: libertà, associazione, unità d’intenti, rispetto reciproco, concordia civile, giustizia sociale, senso aristotelico della misura.

3) La «dinamica», dal canto suo, è quella che emana, si sprigiona e/o si sviluppa dal significato e dal senso dell’oggetto a cui la parola «socialismo» letteralmente si riferisce: il «sociale».

Dal latino «socialis, e», il «sociale» - quale i nostri antenati lo intendevano e/o lo concepivano – era, allo stesso tempo, lo spazio fenomenologico che emergeva dalla «sodalitas» (1) e l’oggetto e la risultante del «vinculum» (2) che tendeva a scaturire dai mutui rapporti o dalle reciproche interrelazioni che potevano esistere o sorgere tra i diversi «socii» di una medesima «societas».

In altre parole, era ciò che gli antichi Greci, senza conoscerne il vocabolo, assimilavano simultaneamente alla nozioni di pratica quotidiana e reciproca del senso dell’onore, del dovere e del sacro, di reciproca solidarietà e di complementare e mutua amicizia, nel contesto della medesima «Polis» («città Stato») o della comune «koinonia polikè» (cioè, la «società civile»).

Inutile, dunque, chiedersi la ragione per la quale, sia i Greci che i Latini, consideravano tutto ciò che riguardava la «sfera del sociale» come «l’arte di stare insieme per stare bene (politikos bios). E stimavano particolarmente consequenziale che il «sociale» (quale oggi, noi, dovremmo intenderlo e/o comprenderlo), fosse semplicemente lo spazio di autocoscienza collettiva che - individualmente e collettivamente alimentato - permetteva ad ogni cittadino di essere, di esistere e di ricevere, senza per altro doversi mai umiliare o genuflettere nei confronti di nessuno.

Come mai e per quale ragione, il «sociale», oggi, è contraddittoriamente diventato l’habitat naturale all’interno del quale, nella speranza di potere essere e/o di potere esistere, cerchiamo semplicemente di prendere o di arraffare ciò che possiamo prendere o agguantare (o ciò che ci viene concesso o permesso di prendere o di carpire) e rifiutiamo egoisticamente di dare o facciamo finta di non potere accordare (o tendiamo a resistere con tutti i mezzi a nostra disposizione, per evitare di concedere) ciò che invece potremmo senz’altro donare o offrire?

Come mai e per quale ragione, all’interno di una medesima società, i «ricchi» o i «benestanti» - che con le loro «agiatezze materiali», potrebbero benissimo essere molto più «ricchi» di quello che già effettivamente sono, permettendo semplicemente a qualche «povero» o «indigente» di beneficiare, di tanto in tanto, della loro evidente o rilevante prosperità – preferiscono stoltamente separarsi dal «corpo sociale» al quale appartengono, «nascondendosi» fisicamente agli occhi di chi potrebbe sollecitare il loro soccorso ed, in certi casi, facendo perfino finta di essere «poveri», per non dovere in qualche modo elargire o dispensare al loro prossimo un minimo di doverosa solidarietà?

Come mai e per quale ragione, i «poveri» o i «bisognosi» delle nostre società - che con le infinite «necessità» di cui sono portatori, potrebbero benissimo essere meno «poveri» ed «indigenti» di quello che già realmente sono, ricevendo semplicemente da qualche «ricco» quel minimo di aiuto fraterno che permetterebbe loro di ritornare immediatamente a sorridere - preferiscono anch’essi separarsi dal «corpo sociale» al quale appartengono, «nascondendosi» fisicamente agli occhi di chi potrebbe portare loro un qualunque sollievo, ed, in certi casi, facendo addirittura finta di non avere nessun problema, per doversi sentire ulteriormente marginalizzati e/o umiliati da quella loro già triste ed imbarazzante situazione?

Come mai e per quale ragione, la «politica» - che secondo Aristotele era «l’interesse generale di una società nei confronti o nei riguardi di un’altra società» - si è contraddittoriamente trasformata, nel «mio interesse di parte contro il tuo, il tuo contro il mio, il nostro contro il loro, il vostro contro il nostro o contro il loro e così via, tutti facenti parte della medesima società»?

Come mai e per quale ragione, «l’economia» - che all’origine era «l’arte di ben gestire o del ben amministrare» ed al «servizio della società» (gli «uomini d’affari» della Polis e/o della Civitas, infatti, quando si accingevano a svolgere le loro attività imprenditoriali, tenevano invariabilmente conto dell’«interesse economico generale del popolo o della nazione di cui facevano parte»!) - è contraddittoriamente diventata, da un lato «l’arte dello sprecare, dello sperperare, del dilapidare e/o del dissipare», e dall’altro «l’arte di arricchirsi individualmente, anche a discapito dell’interesse generale della società»? E come mai e per quale ragione, svolgere una qualunque attività economica, nel contesto di una qualsiasi società del nostro tempo, è illogicamente diventata sinonimo di «fare semplicemente i “nostri affari personali”... ignorando, contrastando o sopraffacendo l’interesse economico generale del popolo e/o della nazione di cui facciamo parte»?

Come mai e per quale ragione, la «cultura» - che all’epoca dei Greci e dei Romani era «l’arte di migliorarsi o di raffinarsi, per valorizzare la propria natura» (kalokagathía) e per «meglio ingentilire e perfezionare quella degli altri membri della Polis o della Civitas» (non dimentichiamo, infatti, che la «cultura» era soprattutto «l’orgoglio di ogni membro di quelle società di sentirsi, allo stesso tempo, radice e frutto, padre e figlio, maestro ed alunno delle migliori opere, del miglior sapere e dei migliori ingegni del loro popolo e della loro nazione») - si è contraddittoriamente trasformata nello «sterile vanto della nostra individuale conoscenza, nei confronti del nostro popolo ignorante»?

Come ebbe a profetizzare Mazzini («Doveri dell’Uomo», Biblioteca Popolare, Napoli, 1860, pag. 22), «a forza d’esagerare un principio contenuto nel Protestantismo, e ch’oggi il Protestantismo sente bisogno d’abbandonare - a forza di dedurre tutte le vostre idee unicamente dall’indipendenza dell’individuo - voi siete giunti, a che? all’anarchia, cioè alla oppressione del debole, nel commercio; alla libertà, cioè alla derisione del debole che non ha mezzi, né tempo, né istruzione per esercitare i propri diritti, nell’ordinamento politico; all’egoismo, cioè all’isolamento e alla rovina del debole che non può aiutarsi da sé, nella morale».

Ecco, dunque, l’irresistibile «dinamica» che si cela dietro la parola «socialismo»: quella, cioè, che si sprigiona e dilaga ai quattro venti dalla semplice constatazione e presa di coscienza - da parte dell’insieme degli «attori sociali» di una medesima società - dell’utilità e dell’interesse del vivere unitamente e congiuntamente, in concordia e cooperazione, per tentare di meglio ben vivere e di meglio prosperare.

4) La «finalità», in fine, è semplicemente il «ben vivere»! «Ben vivere» e «prosperare», o quantomeno tentare di «vivere meno male» e con «meno ingiustizia, mortificazioni e demoralizzazioni» di quanto oggi siamo costretti a vivere. Il tutto, naturalmente, in un contesto di libertà, indipendenza, autodeterminazione e sovranità politica, economica, culturale e militare.

Contrariamente al «socialismo marxista», infatti, il «socialismo tout-court» detesta rifiuta e condanna il «pensiero unico» e la «soluzione totalitaria»; aborrisce e respinge il concetto di società frazionata o divisa ed inevitabilmente ripartita e contrapposta in interessi e classi reciprocamente inconciliabili e sistematicamente ostili e conflittuali; esecra ed avversa - al di fuori dei settori di pubblico interesse e di comune utilità - la pianificazione economica ed il capitalismo di Stato; promuove ed incoraggia l’iniziativa privata e la proprietà privata, nella misura che queste ultime non entrino in contrasto e/o in contraddizione con l’interesse generale della società; non nega, né rifiuta l’egoismo, l’avidità e la bramosia dei singoli individui, nella misura che quelle «qualità», «difetti» o semplici «predisposizioni naturali» non servano da astuzia o da pretesto, sia per lo sfruttamento e/o l’umiliazione dell’uomo sull’uomo, sia per la sua programmata o prestabilita depredazione, spoliazione, depauperazione, sia per la sua voluta o ambita degenerazione, degradazione, demoralizzazione, desolazione.

Il «socialismo tout-cout», inoltre, all’opposto del «socialismo marxista», non prende assolutamente per «buone» le idee economiche che furono teorizzate e divulgate a suo tempo, sia da Adam Smith (da cui, addirittura, Marx riprendera’ integralmente la teoria del «valore lavoro»…) che da David Ricardo.

Al contrario, per rimettere drasticamente e definitivamente in discussione il sistema di produzione capitalista, nonché le distruzioni, le oppressioni ed i drammi sociali che quest’ultimo continua invariabilmente a partorire da più di duecento anni - non solo contesta e rifiuta che i «tre fattori della produzione» come concordemente e sorprendentemente ammesso ed accettato, sia dai «liberisti» che dai «marxisti») continuino ad essere il «capitale», la «tecnologia» ed il «lavoro umano» ma - esige che l’uomo, da semplice «oggetto» o semplice «forza lavoro» della produzione, oppure da informale e contingente «consumatore» di una produzione che persegue degli scopi che sono completamente indipendenti dagli effettivi bisogni e dalla reale soddisfazione della popolazione, deve imperativamente essere considerato, non solo il «soggetto» di quella produzione e/o di quel consumo ma, lo «scopo principale» ed il «fine medesimo» dell’economia.

Il «socialismo tout-cout», in fine, sempre in discordanza e contrapposizione con il «socialismo marxista» - considerando il «Lavoro» uguale al «Capitale; pretendendo «capacità», «competenza» e «responsabilità» da parte di tutti gli attori sociali; esigendo il ristabilimento di una «Magistratura del Lavoro» e di una «Giustizia al di sopra delle parti»; favorendo la «Solidarietà» e la «Gerarchia dei Valori»; caldeggiando «l'Economia Partecipativa» e la «ripartizione delle responsabilità e degli utili tra azionisti e prestatori d’opera»; propugnando «l’Alternativa Corporativa» e l’avvenimento di una «Società Organica e Differenziata»; reclamando la «Socializzazione delle imprese», «l'inserimento delle Categorie produttive nella Direzione del Paese» e l’istituzione di uno «Stato Nazionale del Lavoro» - oltre ad agevolare e rilanciare la dinamica politica, economica e sociale dei diversi Paesi e Popoli-Nazione del mondo, disarma e neutralizza drasticamente l’aggressione liberista/globalista ed, allo stesso tempo, smaschera e mette inderogabilmente fuori gioco la falsa, addomesticata e compiacente opposizione «internazionalista» o «alter mondialista» fino ad ora gestita e/o messa in atto dai cosiddetti «No Global», «Anarchici» e «Rifondaroli vari», il cui solo scopo sembra ormai essere soltanto quello di vanificare la protesta popolare e di deviare ad hoc l'antagonismo sociale dei nostri Popoli-Nazione, per condurlo, impotente e rassegnato, verso le inevitabili «secche» di un modesto, riduttivo, antiquato ed inefficace, «riformismo sociale»

Il «socialismo tout-cout», infatti, sempre in antitesi ed irriducibile antinomia con il «socialismo marxista», non solo non rifiuta la Patria e l’Identità etnica e culturale dei diversi Popoli-Nazione del mondo ma - venerando gli Eroi, esaltando gli Artisti, palpitando per i Poeti e per gli Scrittori, inclinandosi davanti al Sapere degli Studiosi ed alla Genialità degli Inventori, onorando la Famiglia e professando la deferenza ed il rispetto per la Personalità di ognuno e la Fede di tutti – si dichiara fermamente e risolutamente in favore del «Diritto dei popoli a disporre di loro stessi, delle loro terre, delle loro ricchezze e del loro destino» ed è pronto a battersi - con ogni mezzo e contro chiunque - per la libertà, l’indipendenza, l’autodeterminazione e la sovranità politica, economica, culturale e militare dell’insieme dei Popoli-Nazione del mondo.

Perché, dunque, il «SOCIALISMO»? E perché, «NAZIONALE»?

Semplicemente, per ritornare ad essere, esistere ed agire come lo fecero, nel loro tempo, e nella loro buona e cattiva sorte, i nostri antenati



Alberto B. Mariantoni



NOTE

(1) Letteralmente: il «cameratismo» o l’amicizia», la «dimestichezza», la «familiarità», la «fratellanza»; oppure, «collegio», «confraternita»; o ancora, «l’associazione politica» di tutti i cittadini. Nel senso di «cameratismo», la «sodalitas» è citata da Cicerone in «Verrem actio 1, 94» ed in «Brutus, de claris oratoribus 166» da Tacito in «Annales 15, 68»; da Aulus Gellius in «Annalium, frammento 20, 4. 3». Nel senso di «collegio» e/o di «confraternita», da Cicerone, in «Caecilium divinatio 26». Nel senso di «associazione politica», da Cicerone in «Pro Cneo Plancio 37» ed in «Epistulae ad Quintum fratrem 2, 3, 5».

(2) Letteralmente: il «legame», il «vincolo societario». Cicerone, in questo senso - in «De finibus 2, 117» - parla addirittura di «vincula concordiae», di «legami che mantengono la concordia».


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