venerdì 31 ottobre 2014

CCCP. Una colonna sonora per la liberazione europea (Alberto Lodi)

Nel suo libro “La tendenza fondamentale del nostro tempo” Emanuele Severino notava come, ai tempi, in Europa, le uniche due istituzioni rimaste a difendere la concezione tradizionale della filosofia fossero la Chiesa cattolica e l’Unione Sovietica. Niente di strano, quindi, nel percorso esistenziale di Giovanni Lindo Ferretti, cantante dei CCCP, ex punk filosovietico ed amante della DDR (“Siamo stati assorbiti dal fascino retrò del posto: le divise, i militari e tutta la simbologia [...] Quell’attrazione non derivava da una scelta politica [...] ma dal fascino puro e semplice di Berlino Est”), tornato alle sue origini riscoprendosi cattolico e conservatore, ma di un conservatorismo contadino, legato alla terra. E i vecchi fan sono adirati, ma dovrebbero adirarsi con sé stessi, per non aver capito né il Ferretti nuovo né quello vecchio. Che poi è sempre lo stesso: è piuttosto il mondo che è cambiato.

domenica 19 ottobre 2014

Yeats tra fascismo e aristocrazia (Lambert O'Manwel)

« Che importa se le più grandi cose che gli uomini pensano di consacrare o esaltare, accolgono la nostra grandezza solo se unita alla nostra amarezza?». Così parlò William Butler Yeats nei suoi versi dedicati alle Case degli avi, nelle meditazioni in tempo di guerra civile. Alla sua amarezza composta, anzi alla sua «virile malinconia» dedicò un saggio giovanile Tomasi di Lampedusa, che anche nel suo Gattopardo subì il fascino di Yeats, quel gran cantore del Mitico Passato.

Sessant’anni fa, il ventotto gennaio del 1939, alla vigilia della seconda guerra mondiale, il poeta irlandese si spegneva all’età di 73 anni. Era nato in un decoroso sobborgo di Dublino da una rispettabile famiglia protestante anglo-irlandese, con le estati dell’infanzia trascorse all’ombra di croci celtiche e rovine di torri nel piccolo porto di Siligo, nella costa occidentale irlandese. Suo padre alternava le sue preoccupazioni «terrene» (era un agrario benestante) con i suoi sogni celesti di pittura. E il giovane Yeats, che a vent’anni aveva già acquisito una buona notorietà per le prime composizioni poetiche pubblicate sulla Dublin University Review, aveva ben presto rigettato lo spirito vittoriano del suo tempo per sposare la tradizione dell’antica Irlanda gaelica, cattolica e romantica.

La gnosi politica di Philip K. Dick. Il 'Minority Report' nascosto della realtà (Jay Kinney)

Sembra impossibile, ma sono passati quasi vent’anni dall’uscita di Bladerunner. Quell’affascinante ed influente film è stato il primo ad essere ispirato agli scritti dell’autore di fantascienza Philip K. Dick. Altri films, di vario successo lo hanno seguito, compresi Total Recall e Screamers, ma finora i più dickiani sono stati quelli che si sono imbattuti nella sua distopica e paranoica sensibilità senza basarsi direttamente su uno dei suoi libri o dei suoi racconti. The Truman Show, Essi vivono!, Pleasantville, e il notevolissimo The Matrix, sono in spirito tutti films di Dick, nonostante la sua assenza dai titoli di coda.

L’ultima uscita di Spielberg, Minority Report, ritorna direttamente ad attingere alla profonda fonte d’ispirazione di Philip Dick e, nonostante l’inevitabile conclusione spielberghiana, riesce ad evocare uno dei temi preferiti di Dick: come può uno eludere il soffocamento di un usurpante stato di polizia? In Minority Report, questo assume la forma del locale Dipartimento del Precrimine di Washington D.C., che è riuscito ad eliminare gli assassinii arrestandone ed incarcerandone i perpetratori prima che commettano i loro crimini. Questo è reso possibile dall’utilizzo delle facoltà di tre precogs (precognitivi), i quali hanno il talento involontario di vedere nell’immediato futuro e di scorgere gli assassinii in fase di attuazione. Come spiega il film, nell’anno 2054, sta per aver luogo un referendum nazionale per allargare a livello di polizia nazionale la prevenzione pre-criminale.

L'itinerario di Knut Hamsun (Robert Steuckers)

Knut Hamsun: una vita che attraversa circa un secolo intero, che si estende dal 1859 al 1952, una vita che ha camminato tra le prime manifestazioni dei ritmi industriali in Norvegia e l’apertura macabra dell’era atomica, la nostra, che comincia a Hiroshima nel 1945. Hamsun è dunque il testimone di straordinari cambiamenti e, soprattutto un uomo che insorge contro l’inesorabile scomparsa del fondo europeo, del Grund in cui si sono poggiati tutti i geni dei nostri popoli: il mondo contadino, l’umanità che è cullata dalle pulsazioni intatte della Vita naturale.

"una fibra nervosa
che mi unisce all’universo"

Questo secolo di attività letteraria, di ribellione costante, ha permesso allo scrittore norvegese di brillare in ogni maniera: di volta in volta, egli è stato poeta idilliaco, creatore di epopee potenti o di un lirismo di situazione, critico audace delle disfunzioni sociali dello "stupido XIX secolo". Nella sua opera multi-sfaccettata, si percepiscono pertanto al primo sguardo alcune costanti principali: un’adesione alla Natura, una nostalgia dell’uomo originario, dell’uomo di fronte all’elementare, una volontà di liberarsi dalla civilizzazione moderna essenzialmente meccanicista. In una lettera che egli scrive all’età di ventinove anni, scopriamo questa frase così significativa: "Il mio sangue intuisce che ho in me una fibra nervosa che mi unisce all’universo, agli elementi".
Hamsun nasce a Lom-Gudbrandsdalen, nel sud della Norvegia, ma trascorre la sua infanzia e la sua adolescenza a Hammarøy nella provincia del Nordland, al largo delle Isole Lofoten e al di là del Circolo Polare Artico, una patria da lui mai rinnegata e che sarà lo sfondo di tutta la sua immaginazione romanzesca. È una vita rurale, in un paesaggio formidabile, impressionante, unico, con gigantesche falesie, fiordi grandiosi e luci boreali; sarà anche l’influenza negativa di uno zio pietista che condurrà assai presto il giovane Knut a condurre una vita di simpatico vagabondo,di itinerante che esperimenta la vita in tutte le sue forme.

Manifesto futurista (Filippo Tommaso Marinetti)

Avevamo vegliato tutta la notte -i miei amici ed io- sotto lampade di moschea dalle cupole di ottone traforato, stellate come le nostre anime, perché come queste irradiate dal chiuso fulgore di un cuore elettrico. Avevamo lungamente calpestata su opulenti tappeti orientali la nostra atavica accidia, discutendo davanti ai confini estremi della logica ed annerendo molta carta di frenetiche scritture.
Un immenso orgoglio gonfiava i nostri petti, poiché ci sentivamo soli, in quell'ora, ad esser desti e ritti, come fari superbi o come sentinelle avanzate, di fronte all'esercito delle stelle nemiche, occhieggianti dai loro celesti accampamenti. Soli coi fuochisti che s'agitavano davanti ai forni infernali delle grandi navi, soli coi neri fantasmi che frugano nelle pance arroventate delle locomotive lanciate a pazza corsa, soli cogli ubriachi annaspanti, con un incerto batter d'ali, lungo i muri della città.
Sussultammo ad un tratto, all'udire il rumore formidabile degli enormi tramvai a due piani, che passavano sobbalzando, risplendenti di luci multicolori, come i villaggi in festa che il Po straripato squassa e sradica d'improvviso, per trascinarli fino al mare, sulle cascate e attraverso i gorghi di un diluvio.
Poi il silenzio divenne più cupo. Ma mentre ascoltavamo l'estenuato borbottio, di preghiere del vecchio canale e lo scricchiolar d'ossa dei palazzi moribondi sulle loro barbe di umida verdura, noi udimmo subitamente ruggire sotto le finestre gli automobili famelici.